Ripensando agli anni ’50


INTRODUZIONE ALLE VEGLIE

“Nella sera fredda e scura
presso il fuoco del camino
quante storie quante fiabe
raccontava il mio nonnino…”

Ai meno giovani gli basta un’occhiata sul primo verso per ricordare l’ “aria” di una popolarissima canzone di allora, ma per i giovanissimi va detto che si tratta di “Aveva un bavero”, presentata al Festival di Sanremo nel 1954.
E’ vero che nel decennio, a cui facciamo riferimento, i grandi baveri (a ciambella, sciallati, alla marinara), sono stati dei dominatori, ma intesi come colletti “’un c’entrano né pogo né punto“. Invece è acuto il tema introdotto dai versi iniziali. A noi, bimbi in quegli anni, infatti, quei pochi righi rievocano un tempo segnato da lunghi inverni e da tante sere passate a veglia, dove tutto incuriosiva ed era importante. Ci si riuniva davanti al fuoco e i nonni (per me i nonni erano il babbo e la tata Giorgia) raccontavano e commentavano. Ogni ricordo e ogni novità, nel clima delle veglie, erano così “sentiti“, che assumevano la dimensione di grandi fatti e grandi cose. Le veglie più attese erano quelle del periodo natalizio: le misere cose che si preparavano allora, i racconti e quel che si diceva d’altro divenivano il simbolo di quei momenti di festa.
Se riandiamo a quel tempo passato così, in seno alla famiglia, con i discorsi di casa e senza nessun’altra pretesa, oggi sembra un tempo fuori dalla realtà. Ma quegli anni ormai andati, rimasti là fermi, statici, secondo me dimostrano quanto sia sbagliato il classico “pensierino della sera”: “Come passa il tempo”: non è il tempo che passa, siamo noi che vi entriamo e lo attraversiamo.

F.M.V.


l’ultima veglia

La veglia in questione era quella dell’ultimo giorno di “Carnovale“. Occasione  specialissima soprattutto per i bimbetti, appariva come una festa, tutta chiasso e allegria. In realtà si trattava di semplici raduni di vicinato: ci si riuniva, quattro o cinque famiglie, nella casa che a turno offriva la veglia. Venivano preparate piccole cose come dolcetti tipo “frati o cenci“, ma anche cantuccini o “grattacaci”  andavano bene lo stesso.

Quello che non mancava era il “ponce“ e soprattutto il vino. “Per bé’ e ribé’ ci voleva ‘r vino”! E di questo ce n’era un paio davvero convinti: il mi’ babbo, che pur reggendo “l’anima co’ denti” di vino ne reggeva parecchio, e il Moro. Il Moro mesceva vino e cantava più di tutti. E più le “beute” facevano effetto, più crescevano le cantate. Quando il Moro partiva con:

“ Vien, vien, vien ricciolino d’amor

  bada ben che la mamma non veda

  bada ben che la mamma non senta

 Vien, vien, vien ricciolino d’amor … “

si sentiva da tutto Puntaccolle e anche dal Fontino.

Meno male che qualcuno aveva un po’ più di senno e ad un certo punto tirava indietro, altrimenti si faceva tutti giorno.

La mattina dopo, per noi ragazzi, era il giorno più mogio dell’anno. Con il divertimento della sera prima già al passato remoto, non ci rimaneva altro che pensare al carnevale seguente.

F.M.V.

 


Fine anno e Befana

La veglia dell’ultimo dell’anno era su per giù come quella del Ceppo. I grandi godevano di un “caffè bòno” macinato in casa, e noi bimbetti si mangiucchiava quel ch’era rimasto del Natale che vuol dire noci, fichi secchi e cavallucci e difficilmente s’aspettava la mezzanotte. Però, una piccola novità in casa mia capitava. Il babbo, proprio la sera dell’ultimo dell’anno, portava un piccolo calendario molto molto carino. Era il calendarietto d’auguri che Ezio, il barbiere, regalava ai clienti. Illustrato con maliziose donnine anni venti e rilegato col cordoncino e la spannocchina, aveva un’altra, grande virtù: era profumatissimo.
Invece, la veglia della Befana era tutt’altra cosa e per i bimbetti butesi era serata davvero eccezionale. Innanzitutto, s’aspettava una Befana che si “conosceva”, la Befanina di legno che la Cirimbrentola metteva nella vetrina della sua bottega in Via di Mezzo. Una Befanina che muoveva la testa e incantava tutti i ragazzetti. In più a questo, quella sera lì si entrava di nuovo nella magia della sera “der Ceppo”, quando “si ‘spettava ‘r ciuco” (non certo Babbo Natale) davanti al camino con il grande fuoco. L’arrivo della Befana e di quelle poche cose che lasciava nella calza, era attesissimo da tutti i bimbetti.
La calza si preparava con entusiasmo molto tempo prima: o di balla cucita alla meglio o fatta con i ferri con qualche “fondo” di gomitolo colorato, ma quasi sempre era semplicemente “un carzerotto”. Dopo cena sattaccava al gancio del paiolo, o ai ganci che erano dentro il camino, quelli della paletta e delle molle e poi s’andava a letto presto.
La  mattina dopo si correva a vedere quel che c’era col “core ‘n gola”: il timore del carbone c’era sempre, anche se la canzoncina di rito prometteva bene:

“La Befana è tinta e nera
quando viene dal camino
e lo porta un sacchettino
pien di zuccherini e mela…”

Le “mela” non c’erano, ma era piena lo stesso. C’erano i mandarini piccini piccini e gli zuccherini. Gli zuccherini erano tanti, anche se solo pasticche e caramelle.

F.M.V.


La mano della morta

In quegli anni, il mese di novembre era dedicato alle paure. Nelle veglie, discorsi, racconti e novelle vertevano obbligatoriamente sull’argomento. A noi ragazzetti ci garbavano moltissimo le novelle, e anche se mezzi morti di paura si stavano “a sentì’” a bocca aperta, fermi, cheti e ghiacci come statue.
Questa che segue impauriva più di tutte, impauriva anche “i grandi”.

Il posto in questione è un paesetto di povera gente, dove l’unico scopo della vita è quello “di campà”. Nemmeno i giovani si possono permettere di guardare avanti, tanto il futuro sarà come il presente e il passato. Ma qualcuno ambizioso c’è; qualcuno che si arrovella su come fare per uscire da quella trappola fatta di miseria. Trattasi di un giovane garzone, che proprio per le mansioni che svolge, è a contatto con la signoria, a cui fa le commissioni. E ogni volta che ritorna nel proprio povero mondo, si rode di non poter vivere meglio.

Un giorno vede passare il funerale di una vecchia signora che abitava in una villa appena fuori dal paese. Una vecchia signora molto ricca. Il giovane l’aveva sempre sentito dire che quella gente eran “gente ricche”. Così un pensiero gli frulla in testa all’improvviso, un pensiero assurdo e ripugnante. Prova a cacciarlo indietro, ma invece d’andargli indietro gli se ne presenta un altro che gli suggerisce: – Se va bene “svòrti” – .

Il giovane deciso corre a casa, mette in un sacco alla rinfusa attrezzi e arnesi che gli possono servire e corre al cimitero dirigendosi alla cappella dov’è deposta la vecchia signora. I mattoni sono ancora “freschi” e li rimuove con facilità. Difficile, invece, è sollevare il coperchio della cassa, ma il tempo non gli manca, a davanti a se la nottata. Con determinazione si mette all’opera e finalmente la cassa è aperta. La vecchia signora se ne sta lì col volto coperto da una veletta nera, e le mani, appoggiate sul seno, stringono un preziosissimo rosario, al collo ha un filo di perle e le dita sono adorne di anelli; specialmente quelle della mano sinistra. Questione di secondi e tutto finisce in un sacco. Solo gli anelli della mano sinistra, che sono i più belli, non riesce a sfilarli. Rimane un po’ indeciso se lasciarli o provare ancora. Poi, imprecando riprova, ma “quell’anelli ‘un volevan sortì”. Allora prende il coltello e in corrispondenza del polso taglia la mano e butta nel sacco anche quella. Quindi, “in un baleno” è a casa, dove rimpiatta tutto quanto.

Dopo qualche tempo, “calmate le acque” agitate dal fattaccio successo al camposanto, comunica a parenti e amici che gli è stato offerto un buon lavoro in città e li si trasferisce.

Oggi è un anno da quando il giovane garzone ha combinato quello che ha combinato; un anno esatto da quella notte. In città una casa da gioco è ancora illuminata, da cui esce un uomo elegantissimo. E’ il giovane garzone che ha appena festeggiato il suo primo anniversario di ricchezza ed ha fretta; a un’ora così tarda teme di non trovare più vetture. Invece, ecco che arriva una lussuosa carrozza nera, il giovane sale e fa un cenno all’ossequioso cocchiere e la vettura parte. Dopo un buon tratto di strada la carrozza rallenta e il giovane chiede spiegazioni al vetturino. Quello gli dice che un po’ più avanti, al lato dello stradone, c’è qualcuno con un lume in mano. È una signora avvolta in un ampio mantello nero col cappuccio rialzato e la veletta sul viso, che chiede gentilmente di essere riaccompagnata a casa. Il giovane acconsente e ripartono, ma dopo un po’ di minuti si rende conto che la direzione presa dalla vettura non è quella giusta e lui si sporge dal finestrino e chiede di nuovo spiegazioni al cocchiere, ma questo anziché rispondergli frusta il cavallo che ora corre come il vento. Poi, all’improvviso la vettura si ferma. La signora guarda fuori e dice di essere arrivata. Anche il giovane si rende conto di essere davanti al cimitero, “a quel cimitero”. La vecchia signora sta scendendo con un po’ di difficoltà e lui, benché sconvolto, le chiede la mano per poterla aiutare. Così lei tira fuori dal manicotto il moncherino e alzandosi la veletta gli dice: – Te ce l’hai la mia mano!Te la sei presa con i miei gioielli – . Il giovane rimane inchiodato dal terrore e non riesce a muoversi. Istintivamente si guarda intorno e cerca la carrozza che non c’è più. La vecchia signora ora nella mano destra stringe una falce, e con occhi rabbiosi continua: – Hai profanato la mia tomba e mi hai mutilato. Ora pagherai-. Detto questo alza l’arma e lo ferisce mortalmente.

F.M.V.


L’asilo

bambini asilo banchi

Ritorno a quel tempo ormai così lontano, e i ricordi sono tanti. Avevo appena due anni e per undici ore al giorno, dalle otto della mattina alle sette della sera stavo lì. Alle sette quando chiudevano le segherie e veniva a prendermi “la mi’ mamma”.

All’asilo si stava insieme in una stanza e ci guardava solo Suor Maria Nazarena.

L’ambiente era tutto colorato di celeste-cielo. E laccati di questo colore, erano i banchini, le seggioline, l’attaccapanni, la cattedra, la vetrina. La vetrina che era lì di fianco, appena si entrava: alta, stretta stretta, con tantissimi ripiani per mostrare i nostri semplicissimi lavori. Due-tre volte la settimana si usciva nell’orto, dove il divertimento era di rincorrerci e di dondolarci su di una grande altalena. In più a questo, per noi bimbe, c’erano i girotondi della “Madama Pollaiola” e della “Madama Dorè”, o i “battimani” che si facevano a coppie e “si scambiavano” seduti sui muretti. Quelli che dicevano:

” Allo scambio del gio’

giocheremo a sassi ‘n dò … “

Eppoi c’era la “stanga bilanga”: di quando in quando la suora prendeva una bacchettina e ci faceva sulle gambe il gioco per trattenerci un po’ di più seduti. Cosa non mancava mai erano i dispettini e con i dispettini “gli spioncini”. Il momento della spiata garbava di più:

” Spio spione portabandiera

tutte le spie vanno in galera! “

L’ultimo anno si entrava, da “grandi”, nel piazzale delle scuole per imparare il gioco delle “quattro cantonate”. Era tutto un “corri-corri”; per fortuna dava una mano alla suora anche la Prova, la bidella tuttofare che sgambettava per giornate intere tra asilo e scuola elementare.

Un altro paio di uscite si ripetevano nel corso dell’anno: a Natale, in chiesa, per vedere il presepe con i bellissimi e grandissimi personaggi, e per carnevale fino in piazza, dalla Rosa, per i coriandoli. La suora ne comprava un solo sacchettino e poi ce ne dava “una menatina” per uno. Infine un ricordo vivo è quello del 19 Marzo, il giorno di San Giuseppe, quando, nel pomeriggio, si aspettava in gloria che arrivassero le quattro e “San Giuseppe frittellaio” ci portasse le frittelle. E le frittelle arrivavano puntualmente quando appariva la Prova con due piatti ricolmi. Subito noi si partiva all’assalto, ma lei, “schiantando da ride’”, le portava di corsa alla cattedra. La suora era lì pronta a richiamarci all’ordine battendo la bacchetta e facendoci mettere in fila e poi ne dava una ciascuno. Le frittelle erano, o ci sembravano, squisite.

F.M.V.


Usanze domestiche 2

Abbiamo già detto di alcune usanze, ma ne ricordo altre. Per esempio gli usi della “cendere”; primo tra tutti il cosiddetto “cenderone” per il bucato. La cenere, è risaputo, è un ottimo detergente e sbiancante, e per il “cenderone” veniva messa in una balla aperta e  adagiata sui panni preparati nelle conche, che poi bisognava riempire con acqua bollente per l’ammollo di almeno un giorno. Ma la cenere serviva anche in cucina, e proprio in cucina, fino ai primi anni cinquanta, ha durato l’usanza antica dell’utilizzo della “cendere per rigovernà’”. E precisamente fino a quando nelle cucine non venne introdotto l’acquaio. Le posate, specialmente quelle pesanti di ottone, si strusciavano con la cenere in un “truciolo” d’acqua in catini di coccio. Altro impiego della cenere era quello per i ceci. Il “cenderone” per il bucato e la “cenderata” sui ceci erano un po’ la stessa faccenda: si metteva la cenere in un asciughino, si stendeva sopra ai ceci e poi si versava l’acqua nel recipiente per l’ammollo. Al momento del risciacquo tutte “le gusce” venivano via più facilmente e i ceci cuocevano meglio. Ulteriore usanza è stata quella di sciacquare le bottiglie unte o quelle particolarmente macchiate con l’ erba “cimiciaia”, questa più era “fogliosa” più funzionava bene. Tutte pratiche assai preziose perché non costavano nulla.

F. M.V.


Giochi antichi

Cerchietti

cerchiettiNel cinquantasette, per noi bimbette già grandi (sui dodici anni), arrivarono i cerchietti. La novità ci si presentò alla colonia (gestita dal CIF, Centro Italiano Femminile: associazione delle donne cattoliche che si sviluppa nel dopoguerra sotto la spinta di Papa Pio XII dedicandosi alla gestione delle mense per i poveri, colonie marine e montane, ecc. N.d.R.) al Calambrone, che per noi rappresentava non solo un mese di mare, ma il simbolo assoluto dell’estate e delle vacanze.

Già da un paio d’anni i giochini sciapiti sulla sabbia non si facevano più; ora si passava il tempo con le parole crociate, a scambiare i giornalini, le corse con la palla e le chiacchiere fresche. Per fortuna, quell’anno, ci regalò il gioco dei cerchietti. Giocare “a cerchietti” non era un granché: consisteva soltanto nel tirare e riprendere al volo un piccolo cerchio di legno con due bacchette. Si giocava in due, ma anche in quattro con i tiri incrociati. Vinceva chi riusciva a farlo “cascà” meno volte. Non era un grande gioco, ma “garbò” a tutti compreso i bimbetti. Si giocava da tutte le parti, negli spiazzi in pineta e ovviamente sulla spiaggia e perfino in acqua, e anche in quel piazzale immenso della colonia “Vittorio Emanuele”. Un piazzale davvero enorme dove si svolgeva il corri-corri. Se il tempo era brutto, si tiravano pure in camerata (uno stanzone grandissimo con quarantotto letti).

L’ Hula-Hoop

hula-hoopNell’estate del cinquantotto esplose una novità assoluta, l’Hula-Hoop. E fu così entusiasmante che noi ragazzine si fece solo quello. Come tutti sanno si tratta di un grande cerchio di plastica colorato che va fatto roteare intorno alla vita e ai fianchi senza farlo cadere. Che faticaccia imparare! Però fummo ricompensate alla grande con la soddisfazione di una conquista grandissima. Però durò poco e malgrado il furore sollevato il gioco si spense in quella sola estate. E’ il destino delle mode.

F.M.V.


Quei materassi!

Giannina Ciampi: maestra di alta cucina e materassaia.

Giannina Ciampi: maestra di alta cucina e materassaia.

Mi riferisco ai vecchi materassi di lana o di vegetale che una volta l’anno andavano sfatti, lavati e rifatti. Era un ammattimento grosso! La testimonianza è diretta: più di una volta cuciti e fatti dalla sottoscritta.
Per primissima cosa andavano sfatti, che vuol dire scuciti, anzi “spuntiti”. Sia la lana che il vegetale, perché non si “ammassassero”, erano ben fermati con “passaggi” forti e ben annodati. La cucitura di questi gusci era noiosa e complicata, e non tutte le sarte la facevano. Non è facilissimo nemmeno descrivere simile faccenda, ma visto che l’ho sperimentata direttamente, mi ci provo.
Per i “passaggi”, da parte a parte, occorrevano due tasselli di rinforzo per ognuno con due buchi per far passare e, di seguito, annodare il grosso filo. Per ogni materasso matrimoniale occorrevano ben trenta “passaggi” con sessanta “toppini di rinforzo” e centoventi buchetti da fare col “puntarolo”.  Non mettiamo nel conto l’apertura nel mezzo, quella utilizzata per mettere dentro il materiale; anch’essa con i lati rinforzati e i buchetti ben cuciti e rifiniti. Poi, si consideri che i materassi erano due.
Inoltre, fino agli anni sessanta, nei letti matrimoniali al posto dei due guanciali c’era il “guanciallungo”, un lungo guanciale di lana largo quanto il letto. Un oggetto che andava scucito, vuotato, lavato, sistemata la lana e rifatto. Ma la “faccenda guanciallungo” le donne la facevano da sé, non gli occorreva la materassaia. Come si è potuto intendere dalla descrizione di cui sopra, rifare i materassi era operazione di ben altro impegno. Ma raccontiamola tutta.
Una volta tolti dai gusci lana e vegetale questi andavano “allargati” perché ritornassero soffici e morbidi. Le materassaie, chiamate nelle case per la faccenda, si aiutavano con “canniccio e bastoni”, attrezzi che portavano con sé insieme ad un grosso ago e… tanta pazienza.
Il lavoro completo non si faceva in quattro e quattr’otto, ci voleva qualche ora. “Allargati” lana e vegetale andavano rimessi dentro i gusci cercando di sterzarli più pari possibile. Quindi, con le apposite matassine, rifare i vari “passaggi” che riformavano i classici “sbuffi”; richiudere l’ apertura del mezzo e infine riformare la “cresta” su tutti gli otto lati per ogni materasso. Tutto questo un po’ in ginocchio e un po’ chine sul pavimento (quasi sempre quello di cucina).
Per i contadini le cose andavano meglio perché il lavoro veniva fatto nell’estate, fuori sull’aie.
Di materassaie di professione, se così si può dire perché non si riusciva a vivere solo di quello, ne ho conosciute tre soltanto: la Giannina del Campo, la Dina di Spalletta e la Consiglina del Galai. In casa mia è sempre venuta la Consiglina, che stava a San Nicolaio, dietro la chiesina, vicino a Coio. Non portava né il canniccio, né i bastoni, né il grosso ago, veniva senza nulla. Tanto in casa mia, tutto quello che occorreva c’è sempre stato. Lana e vegetale si allargavano a mano io e mia zia Giorgia in chissà quante sere, e quando tutto era pronto per rifarne una, si chiamava la Consiglina. Lei veniva sempre dopo “desinà”: montava su dal rio con “il grembiale e i carzerotti” puliti sotto il braccio e il fagotto di lavoretti (di cucito) da fa’ come cambio di lavoro.
Negli anni di bimbetta e ragazzetta il tempo dei materassi è sempre stato così. Mezze giornate che mi garbavano tanto. La Consiglina conosceva l’Apocalisse e io mi ci raccomandavo che raccontasse e lei lo faceva tutto il tempo, fino a sera. Anzi, soprattutto la sera, quando ormai il materasso era finito e lei per fare la cresta si poteva sedere in terra, di lato, un po’ più comoda che in ginocchione. E quando diventava proprio tardi, tornava il babbo e allora sì che raccontava, anzi raccontavano. Per il babbo trovare in casa la Consiglina e poter parlare dell’Apocalisse era una manna: dove trovarla una come lei, pronta a “ragionà” dell’Apocalisse? E per lei era lo stesso: dove lo trovava uno come il babbo pronto a “ragionà” dell’Apocalisse?
A me stavano bene tutti e due; erano discorsi che capivo poco, ma li stavo a sentire incantata come se raccontassero le novelle. Peccato che i materassi si facessero solo una volta l’anno!

F.M.V.

 


Io, Guido e la Tosca

uscita-anni-50Era l’inizio del decennio e il tempo quello della scuola elementare; precisamente l’anno scolastico cinquantatre-cinquantaquattro.
Si stava tutti e due a Puntaccolle, io nel Poggetto e Guido nel Rietto.
Lui ci veniva spesso là dove stavo io, “mi veniva a chiamà’ e mi ‘spettava” in fondo di scala. E anch’io facevo uguale: lo chiamavo e lo aspettavo in fondo di scala. Non si stava a “perde’ tempo a entrà’ nelle case e fà’ tanti discorsi”, si partiva subito verso la scuola, il Catechismo, la Messa (Guido la serviva), dal mentaio, al dopo-scuola. Ecco, proprio il dopo-scuola; fu con quello che la Tosca (la mamma di Guido) scoprì l’altarini. Andò così.
Erano gli anni che nelle stanze sopra il Comune, la Madre teneva il dopo-scuola; per cinquecento lire al mese, vi si poteva andare per un paio d’ore, dalle due alle quattro. Chi aveva bisogno di un po’ di ripetizione, la Madre lo seguiva in modo particolare e tutti comunque venivano aiutati per i compiti di casa, specialmente nelle letture.
Anch’io ci andavo, ma soltanto quando pioveva. Mentre per quanto riguarda la scuola, quella della mattina, la prendevo sul serio e ci stavo attentissima, il pomeriggio era intoccabile per “andà’ aggiro”. A quel tempo garbava a tutti ritornare nel piazzale delle scuole, ma solo per “passà’ il tempo e per giocà’”, soprattutto un gioco che si faceva solo lì: le quattro cantonate.
A questo punto, devo spiegare un certo “contratto” che il mi’ babbo, costretto dalla mi’ mamma, aveva fatto con le suore. Lui ci si recava spesso da loro perché lo mandavano a chiamare per qualsiasi lavoretto. Lavoretti minimi ma necessari, e che lui faceva sempre in via di favore. Allora la mi’ mamma gli fece chiedere (sottinteso come pagamento) il permesso di farmi andare qualche volta al dopo-scuola, senza impegno, di quando in quando. E le suore dissero subito di sì.
Tutti i giorni alle due, sia io che Guido, si usciva di casa. Se non ci si trovava “a Puntaccolle”, chi prima usciva “‘ndava a chiamà'”. Lui il dopo-scuola lo doveva frequentare regolarmente, io invece regolarmente frequentavo solo il piazzale. Infatti, una volta lì, se c’ era qualcuno a giocare (e qualcuno ci trovavo quasi sempre) m’imbrancavo anch’io e trattenevo giù anche Guido, a cui la cosa stava benone. Poi, quando ci pareva, si ritornava in giù, ognuno a casa sua. Così andò avanti per quasi tutto l’anno scolastico. Poi, come fu come non fu, la Tosca lo venne a sapere. Per primissima cosa “andò a ‘spettà’” la mi’ mamma alla segheria e risentita “ni fece sapé’” tutto quanto. Ma la mi’ mamma lo sapeva benissimo che io “‘r doppo-dessinà’ ‘ndavo aggiro” e infatti glielo disse:
“E lo sò che lé’ ‘un ci và, ma tanto io ‘r mese ‘un lo pago”
“Eh, ma io sì!” – rispose la Tosca risentita.
A questo punto, l’unica che “né la doveva fà’ intende’ “ ero io. Mi trovò, per caso, alla fonte, mi “chiappo” per le code e mi urlò in un orecchio: “O’ stracicona! Te vai ‘n dù’ ti pare. Ma lù’ ‘asciacelo ‘ndà’!”
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, avevo capito benissimo. Il “chiamo” reciproco continuò, però io facevo quel che mi pareva come prima, mentre Guido montava la scala delle suore e sbattendo la cartella da tutte le parti imprecava: – “Accidenti a chi né la ditto” – .
E io che “riscotevo” tutte le sere, quella volta lì la passai liscia: caso eccezionale ero in regola.

F.M.V.


Usanze Domestiche

idrolitinaErano tante quelle usanze e qui ne voglio raccontare qualcuna delle più comuni allora che i meno giovani ricorderanno di certo, come l’ insetticida, le borse della spesa, il turchinetto. L’insetticida per noi era il “fritte”. Più precisamente non il prodotto insetticida, il D.D.T., bensì la macchinetta che spruzzava. Una macchinetta di metallo con tanto di serbatoio e stantuffo che agendo con il cosiddetto “olio di gomito” si riusciva ad “appestare” dappertutto.

Anche le borse della spesa, che sono state in uso fino al sessanta, ora sembrerebbero oggetti del medioevo. Erano le borse che facevano i calzolai con i “triangolini” di cuoio cuciti insieme: infinibili! Duravano per decenni e si presentavano anche bene, specialmente quelle di lusso con i colori della pelle sfumati che formavano dei bei motivi centrali, quasi sempre dei rombi.

Un altro comportamento tipico di quegli anni (e che nei successivi anni sessanta  non esisteva già più) era l’uso del “turchinetto” per il bucato. Una sostanza in polvere di un bel colore azzurro intenso che in minima quantità si scioglieva nell’acqua dell’ ultimo risciacquo e donava alle lenzuola un bell’effetto color bianco-azzurrino.

la_vecchinaMa altre piccole consuetudini della vita di allora si riscontravano anche in tavola, come il caffè, l’acqua frizzante e il tè. Il caffè si comprava ancora in chicchi e si macinava con un simpatico macinino dotato di una cassettina. Il caffè in polvere era solo quello dei surrogati, come “La vecchina” e il “Caffè Frank”. Mentre l’acqua che “mussava” era il lusso della domenica. Al  centro della tavola da pranzo, infatti, stava la bottiglia di litro con la bustina dell’ “Idrolitina”. Infine il tè sfuso, ridotto in minuscoli pezzettini di foglie nelle scatoline. I filtri arrivarono dopo qualche anno. Per tutto il decennio il tè si fece ancora, come dicevano Urbino e l’Angèla: col “pizzicottino”.

F.M.V.