Era l’inizio del decennio e il tempo quello della scuola elementare; precisamente l’anno scolastico cinquantatre-cinquantaquattro.
Si stava tutti e due a Puntaccolle, io nel Poggetto e Guido nel Rietto.
Lui ci veniva spesso là dove stavo io, “mi veniva a chiamà’ e mi ‘spettava” in fondo di scala. E anch’io facevo uguale: lo chiamavo e lo aspettavo in fondo di scala. Non si stava a “perde’ tempo a entrà’ nelle case e fà’ tanti discorsi”, si partiva subito verso la scuola, il Catechismo, la Messa (Guido la serviva), dal mentaio, al dopo-scuola. Ecco, proprio il dopo-scuola; fu con quello che la Tosca (la mamma di Guido) scoprì l’altarini. Andò così.
Erano gli anni che nelle stanze sopra il Comune, la Madre teneva il dopo-scuola; per cinquecento lire al mese, vi si poteva andare per un paio d’ore, dalle due alle quattro. Chi aveva bisogno di un po’ di ripetizione, la Madre lo seguiva in modo particolare e tutti comunque venivano aiutati per i compiti di casa, specialmente nelle letture.
Anch’io ci andavo, ma soltanto quando pioveva. Mentre per quanto riguarda la scuola, quella della mattina, la prendevo sul serio e ci stavo attentissima, il pomeriggio era intoccabile per “andà’ aggiro”. A quel tempo garbava a tutti ritornare nel piazzale delle scuole, ma solo per “passà’ il tempo e per giocà’”, soprattutto un gioco che si faceva solo lì: le quattro cantonate.
A questo punto, devo spiegare un certo “contratto” che il mi’ babbo, costretto dalla mi’ mamma, aveva fatto con le suore. Lui ci si recava spesso da loro perché lo mandavano a chiamare per qualsiasi lavoretto. Lavoretti minimi ma necessari, e che lui faceva sempre in via di favore. Allora la mi’ mamma gli fece chiedere (sottinteso come pagamento) il permesso di farmi andare qualche volta al dopo-scuola, senza impegno, di quando in quando. E le suore dissero subito di sì.
Tutti i giorni alle due, sia io che Guido, si usciva di casa. Se non ci si trovava “a Puntaccolle”, chi prima usciva “‘ndava a chiamà'”. Lui il dopo-scuola lo doveva frequentare regolarmente, io invece regolarmente frequentavo solo il piazzale. Infatti, una volta lì, se c’ era qualcuno a giocare (e qualcuno ci trovavo quasi sempre) m’imbrancavo anch’io e trattenevo giù anche Guido, a cui la cosa stava benone. Poi, quando ci pareva, si ritornava in giù, ognuno a casa sua. Così andò avanti per quasi tutto l’anno scolastico. Poi, come fu come non fu, la Tosca lo venne a sapere. Per primissima cosa “andò a ‘spettà’” la mi’ mamma alla segheria e risentita “ni fece sapé’” tutto quanto. Ma la mi’ mamma lo sapeva benissimo che io “‘r doppo-dessinà’ ‘ndavo aggiro” e infatti glielo disse:
“E lo sò che lé’ ‘un ci và, ma tanto io ‘r mese ‘un lo pago”
“Eh, ma io sì!” – rispose la Tosca risentita.
A questo punto, l’unica che “né la doveva fà’ intende’ “ ero io. Mi trovò, per caso, alla fonte, mi “chiappo” per le code e mi urlò in un orecchio: “O’ stracicona! Te vai ‘n dù’ ti pare. Ma lù’ ‘asciacelo ‘ndà’!”
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, avevo capito benissimo. Il “chiamo” reciproco continuò, però io facevo quel che mi pareva come prima, mentre Guido montava la scala delle suore e sbattendo la cartella da tutte le parti imprecava: – “Accidenti a chi né la ditto” – .
E io che “riscotevo” tutte le sere, quella volta lì la passai liscia: caso eccezionale ero in regola.
F.M.V.