Mai più “felice notte signoria”


presentazione del libro

Frantoio Sociale di Buti, lì 4 Maggio 2013

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In una delle testimonianze che troverete nel libro, un ex mezzadro finisce dicendo: “In sostanza, per tutti quelli che lavoravano era la vita del “pellegrino”. Ma c’è un fatto: la fratellanza che esisteva allora era grande. A quel tempo se un contadino s’ammalava ci si metteva d’accordo e s’indava a fargli i lavori del momento. Ma non solo in caso di malattia, anche in qualsiasi altra situazione di difficoltà”.

Mi fu spiegato di dove nasceva la “fratellanza”: era la comune condizione di mezzadri, la dura vita che quotidianamente veniva affrontata nei poderi:

S’era sempre lì, quando a vangà, quando a pulì, a scòte, a rimondà. Uno chiamava l’altro invitandolo a cantà un’ottava che lui gli avrebbe risposto e intanto sforbiciava. E poi, in capo alla giornata c’era bisogno anche di sta un po’ insieme e per la sera venivano organizzate le veglie. Gli argomenti trattati eran sempre i soliti: d’inverno l’olive, quanto t’han fatto a te, io ce l’ho piccine, han patito il freddo. Insomma si parlava di quella che era la risorsa fondamentale delle famiglie.”.

Ai contadini che stavano in Cima alla Serra, il fieno, necessario per l’alimentazione invernale delle pecore, i barrocciai glielo scaricavano al Teatro, e dietro la Compagnia per quelli che abitavano in Volpaia. Quei giorni, “un ci voleva discorsi, eran quintali e quintali” e le famiglie della zona erano tutte impegnate nel trasporto del fieno, ma nessuno veniva pagato. Una volta il favore era per uno, la volta dopo per l’altro.

Il trasporto del fieno comportava una fatica particolare:

Prende il fascio dietro la Chiesa e portallo fino in Finocchieto, senza le strade, era un’impresa. E i contadini le chiedevano le strade, ma ‘un c’era verso d’avelle dai padroni. Tutto sul groppone, tutto sulle spalle”.

Quand’ero bimbetto io, a Buti c’era ottanta branchi di pecore. Ad esempio chi aveva il podere su in alto come Nello di Stefano, dallo Spitigno e altri, doveva piglià il lettime e portallo in Buti, dove c’erano le stalle, poi di Buti rimettisi la cesta del sugo in capo e portallo in su. Anche d’agosto, quando si faceva la biga del lettime, col ciuffolo, la camiciola e le fune, s’indava su e giù tre volte (due la mattina e una la sera). Che fatiche erano!”.

A queste fatiche si sommavano le tante umiliazioni cui si era costretti nel rapporto con i padroni. Ad ogni incontro bisognava togliersi il cappello e dire: “Buongiorno signoria signor padrone”. Tutte le domeniche, la mattina, anche se non era successo nulla, s’era convocati davanti la casa e chiamati, uno alla volta, allo scrittoio. Poi, d’obbligo, si doveva andare alla mess’ultima, guai a mancare. E dopo una giornata di lavoro nel podere di dieci, undici ore, dover chiedere, sempre con il cappello in mano: “Felice notte signoria, comanda niente?”.

Nel libro troverete altre numerose testimonianze, che vi forniranno uno spaccato abbastanza completo di quelle che erano le condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri a Buti.

Alla fine degli anni sessanta, questo mondo è ormai al tramonto. Un mondo così com’era organizzato, che non poteva durare, anzi era giusto che scomparisse.

Il monte, già allora, è preda del degrado e dell’abbandono. Al posto del mezzadro, che aveva trasformato in centinaia d’anni, a prezzo di sacrifici inenarrabili, il paesaggio agrario dei Monti Pisani, non subentrano forme di conduzione più avanzate; non si assiste (in assenza di un quadro normativo nazionale) ad una ricomposizione fondiaria che faccia assumere un ruolo centrale ai produttori. L’azienda diretto coltivatrice trova da noi un pesante ostacolo nelle dure condizioni di lavoro e nei costi derivanti dalla proibitiva pendenza delle superfici coltivate. La campagna si spopola e le persone vengono calamitate dalla Piaggio, dai mobilifici e dai calzaturifici delle zone circostanti. In quel miserevole stato, “chi ce li reggeva” sul podere i personaggi “umiliati e offesi” descritti nel romanzo “Un vestito di cotone stampato” di William Landi? Per una breve parentesi, si coltivò l’illusione che sul patrimonio antico di abilità nell’intreccio del castagno potesse consolidarsi una manifattura locale con il boom delle “borse”; attività che permetteva un’integrazione di reddito preziosa per tante famiglie contadine.

Capita oggigiorno che ci si intrattenga poetizzando su cose che non esistono più. Così, ormai, è per un’olivicoltura che abbia una qualche pretesa di rivolgersi al mercato. Anche noi, giovani di allora, immaginammo rivolgimenti, che si infransero nel giro di poco tempo travolti dalla storia. Nulla toglie ai risultati che sono stati raggiunti dal Frantoio Sociale in termini di servizi (frangitura, distribuzione di mezzi tecnici) ad un costo minore e per il maggior prezzo riconosciuto ai soci per l’olio conferito (il più alto, senza tema di smentite). Avviare in questo modo una riflessione sulle vicende della nostra olivicoltura e dell’esperienza attraversata con il Frantoio Sociale, evita ricostruzioni mistificatorie, riconduce le vicende positive della nostra “bottega” alle giuste proporzioni di piccole prodezze. Allora, parlando dell’attuale base sociale, non è proprio il caso di riempirsi la bocca dicendo che comprende alcune centinaia di aziende, perché siamo consapevoli che aziende è una parola grossa. Diciamo vecchi rugosi come la corteccia delle nostre piante o soggetti che si sono trovati tra capo e collo un’eredità, o gente piovuta da fuori. Comunque, amanti dell’olivo e del suo frutto e di questa valle. Quindi volare basso, avere una visione disincantata di questo nostro piccolo mondo, per innescare, se possibile, una reazione, che scatta solo quando si è consapevoli in quale contesto reale siamo costretti ad operare. Prendendo atto che i grandi obiettivi sono stati mancati, ad esempio quello di avere riconosciuta un’integrazione di reddito per coloro che fossero restati abbarbicati al proprio pezzo di terra riconoscendogli la funzione di presidio umano del territorio. La politica nazionale non ha saputo guardare al di là del proprio naso e, oggi, una tale miopia la scontiamo duramente in termini di dissesto del territorio.

Ritorniamo a bomba, a quei giovani “che volevano cambiare le cose” alla fine degli anni sessanta. In quel periodo, dopo il “sessantotto” e il cosiddetto “autunno caldo”, il Partito Comunista Italiano calamitò nelle sue fila tanti di questi giovani; furono decine di migliaia i nuovi iscritti, tra operai, contadini e studenti.

A mio giudizio, in quel momento, si erano realizzate una serie di condizioni perché la politica fosse cosa pulita e trasparente. A livello provinciale avevamo stimati dirigenti del movimento contadino come Anselmo Pucci, Natale Simoncini, Lauso Selmi e Dino Ceccarelli: ci corre con le pratiche di esponenti di certi partiti che hanno consegnato la politica alla fogna attuale. Ad esempio, Anselmo Pucci, già mezzadro e allora assessore regionale, era modello per tanti militanti. Allo stesso tempo il comportamento dei militanti, dediti senza risparmio alla causa, esigeva la massima coerenza del dirigente. Quando la politica è questo, un agire disinteressato, si riesce davvero a costruire il bene comune.

Come figura esemplare di militante di quel periodo, ricordo Carlo Felici, responsabile della locale sezione della Camera del Lavoro. Uno di quelli che non guardava certo al tempo speso per l’impegno politico. Emmo Biondi mi dice: “Quando morì, meno male che quarcuno nel Partito ci pensò. Con tutti que’ figlioli….. Gli davano gli incarichi e lui li faceva; era sempre presente alle riunioni anche se la strada che doveva fa’ per arrivà al Botteghino era tanta. C’era la passione…”.

Nel dopoguerra, ridotto drasticamente lo spazio dell’agricoltura, in paese si ebbe un cambiamento culturale affermandosi una visione strabica, per cui da quel punto in poi lo sguardo veniva rivolto solo alla fabbrica e in special modo alla grande fabbrica, alla Piaggio. Così ci si dimenticava di quello che c’era alle spalle: il monte con tutte le sue problematiche rese particolarmente impegnative dal disfacimento del contratto di mezzadria. Questo cambiamento culturale venne favorito dal fatto che la grande maggioranza dei butesi attivi si spostava quotidianamente verso Pontedera, Cascina, Bientina, San Giovanni alla Vena, Castelfranco, là dove c’era il lavoro e quindi la possibilità di garantire il sostentamento della gran parte delle famiglie butesi.

Nel libro mi sono limitato a raccontare una parte di quanto accadde in paese a seguito del vento nuovo del 68/69 concentrando l’attenzione su quanto si verificò nella locale sezione del Partito Comunista Italiano. Per l’agricoltura, un primo obiettivo fu rispondere al bisogno che alcune zone venissero dotate di strade interpoderali, e un altro fare pressione sull’ENEL perché la “luce” arrivasse anche nella zona del Seracino. Ricordo che la “Sezione” (del PCI) diffuse un volantino choc sull’argomento delle strade additando Tizio, Caio e Sempronio come coloro che tentavano di ostacolare il progetto.

L’attivismo da parte di noi giovani, fu incoraggiato da Vladi (Vladimiro Cavallini), allora segretario della Sezione, e trovava corrispondenza nell’Amministrazione Comunale dove agiva con sensibilità il sindaco Lelio Baroni. Quì, per coinvolgere e mettere “al pezzo” più persone possibile, furono ideate le commissioni di assessorato con dentro rappresentanti dei partiti e delle categorie interessate.

Nasce così, nel 1971, la “Commissione per la difesa dell’olivicoltura e della forestazione” e nel libro è documentato il lavoro intenso che l’organismo seppe sviluppare con alla presidenza l’assessore Emmo Biondi.

La vicenda della Commissione attesta come funzionasse bene, in quel passaggio, il meccanismo democratico. Bastava convocare una riunione, individuare una cosa giusta da fare, spesso si trovava ascolto nella Giunta riguardo alla copertura finanziaria e il passo avanti, con il concorso di tutte le componenti sociali, era compiuto. Però, quando ci si misurò con la produzione, la democrazia, vissuta con tanta passione nell’ambito locale, non bastò. A causa della mancanza di leggi a sostegno dei produttori, l’economia, con le sue dure regole, ci chiuse la porta in faccia.

Con ciò mi riferisco al tentativo compiuto di lì a poco dal Frantoio Sociale per la riattivazione di un oliveto abbandonato e la sua gestione. Un’iniziativa, quest’ultima, che allora definii enfaticamente in un libretto “un modo nuovo di gestire l’oliveto che avrebbe aperto una ricca prospettiva”, e che fu abbandonata dalla Cooperativa nel giro di pochissimi anni per le perdite consistenti che dovette sopportare.

Esattamente il 25 Ottobre 1971, si tenne, al Circolo delle ACLI, la “Conferenza dei Monti Pisani sull’agricoltura e la forestazione”, promossa dal Comune di Buti d’intesa con i comuni di Calci, San Giuliano Terme e Vicopisano, a cui partecipò l’Assessore provinciale Natale Simoncini. La relazione del Simoncini prese spunto da un’indagine economico-sociale in 100 aziende olivicole di Buti realizzata da Giorgio Mulopulos. Giorgio, allora, era un giovane laureato in agraria. Poi, divenuto dipendente della Provincia, fu stretto collaboratore di Natale Simoncini e dopo ancora responsabile provinciale della Lega delle Cooperative agricole. Un amico della nostra Cooperativa e mio, che ci ha lasciato troppo presto. La relazione, dopo aver ricordato le questioni generali, definiva alcuni obbiettivi più ravvicinati tra cui quello di “creare un oleificio per la molitura, la confezione e la vendita del prodotto”.

La mozione conclusiva, sottoscritta da tutti i partecipanti e quindi anche dal comune di Buti, confermò l’obbiettivo della “costruzione dell’Oleificio Sociale” e che lo stesso sarebbe stato posizionato a Caprona e non davanti al camposanto di Vicopisano come deciso inizialmente.

Il boccone amaro di doversi spostare fino a Caprona non andò giù alla Commissione e pochi giorni dopo partì una letteraccia all’indirizzo dell’Associazione degli Olivicoltori dei Monti Pisani, a Natale Simoncini e al Sindaco di Buti, lettera che trovate riprodotta nel libro. E subito si “passa all’atto pratico” volendo far nascere un nostro Frantoio Sociale.

In parallelo, la “Sezione” porta avanti il discorso nella dimensione politica e lo si vede all’inizio del 1972, quando tiene il suo XIII° congresso, dove mette a fuoco più iniziative in un documento distribuito agli iscritti, tra cui la creazione del Frantoio Sociale.

Va sottolineato ancora una volta, perché giustamente si discute sulla non credibilità della politica e dei suoi costi eccessivi, che quello era un periodo, iniziato con l’abbattimento del fascismo e che continuava nei primi anni 70, dove l’impegno nel Partito Comunista Italiano veniva prestato del tutto gratuitamente e senza limiti di tempo e anteponendolo a tutto, anche alla famiglia. Fu un periodo fecondo dove si “chiacchierava” ma si riusciva anche a mettere una pietra sull’altra, a costruire cose che, non è sproporzionato affermare, hanno segnato la vita locale. Questa capacità di operare concretamente per risolvere i problemi, è ben illustrata dall’opuscolo per il XIII° congresso già ricordato. Le note mettevano a fuoco sei questioni: olivicoltura, lavoro a domicilio, pensioni, casa, trasporti, nuova casa del popolo (realizzata di lì a poco e che chiamammo “1° Maggio”).

Ritornando alla Commissione, non va dimenticato il cruciale capitolo delle strade interpoderali e il 22 Dicembre 1972 il Consiglio Comunale approva la parte del progetto FEOGA relativa a Buti. Le strade progettate a quel momento erano la Solaio-Cima la Serra, Il Termine-Maestraccio, San Giorgio-Quadonica e La Valle-San Martino. Però furono realizzate solo le prime due, mentre la San Giorgio – Quadonica venne costruita qualche anno dopo dal Frantoio.

Da quanto detto finora, è chiaro che l’orientamento della Federazione del PCI di Pisa e, nello specifico, della Commissone Agraria dello stesso partito era quello di costruire un unico frantoio. Inizialmente, per contentare tutti, era stato ipotizzato che la struttura doveva sorgere davanti al Camposanto di Vicopisano.Poi, per difficoltà sopravvenute riguardo alla disponibilità dei terreni, con una scelta calata dall’alto, l’ubicazione venne spostata a Caprona. Si osserva che la decisione, costringendo i produttori di Pomarance – ai confini della Provincia – a portare le proprie olive a Caprona, come poteva considerare il problema di Buti? L’errore stava proprio qui, la distanza tra Buti e Caprona non era solo materiale. Così, sulla spinta dei produttori che avevano, in maggioranza, accettato Vicopisano, alla proposta di Caprona bisognò disobbedire, non “fare gallina”.

E il 14 Giugno 1972, “nel Palazzo Comunale”, diciotto soci fondatori, dettero vita al Frantoio Sociale.

Poco prima, come Commissione Comunale avevamo denunciato pubblicamente l’abuso compiuto dai frantoi privati, che svolgevano il servizio per terzi, che avevano pressoché raddoppiato la tariffa di frangitura. L’iniziativa, mentre aveva irrigidito Carlo Bernardini, colpì Emilio Bernardini, persona già anziana, che mai avrebbe voluto essere al centro dell’attenzione in paese per una faccenda del genere. Di più, suo genero, Rino Paolo Parenti, era esponente di peso della Democrazia Cristiana che sosteneva l’iniziativa.

Preso contatto con Emilino del Gobbo (Emilio Bernardini), fu facile convincerlo a cedere in affitto alla Cooperativa il proprio frantoio. E, “in quattre e quattr’otto”, iniziammo l’attività pressoché dimezzando il costo della frangitura.

A quel punto, l’appetito era cresciuto e con l’aiuto di Patrizia, allora segretaria dell’Assessore Regionale Pucci, alla fine del 1972 venne organizzata una visita sua e di Marino Papucci, socialista e a quel momento Assessore Regionale all’Agricoltura. Il frantoio era piuttosto mal messo. Ricordo che furono piazzate delle tavole davanti all’ingresso perché “c’era tanta mota”. Offrimmo anche la cena agli ospiti a base di zuppa di cavolo, rapini e salsicce (ricordo che facevo la spola dal frantoio al ristorante del mio cugino Giancarlo per ritirare le diverse pietanze). Alla nostra richiesta di un finanziamento, ci fu il sì convinto di Papucci e il neutrale, rispettoso silenzio di Pucci.

La polemica con i compagni dell’Associazione durò per parecchio. Prima dei lavori che seguirono all’accoglimento del progetto, ne capitarono due di Vicopisano, e uno di loro, più deciso, disse: “Questo non è un frantoio, è un pollaio”.

Facevo cenno all’appetito aumentato, ma con un limite invalicabile: il frantoio capofila nei Monti Pisani era ed è a tutt’oggi Caprona. Memori dell’inizio, sapevamo che il nostro ruolo nel comprensorio era solo accessorio a quell’impianto, con un bacino di potenziali utenti ristretto a Buti, Bientina e Santa Maria a Monte. Quindi, mai ci siamo posti l’obiettivo di creare una nuova struttura, anche se abbiamo voluto che il nostro Frantoio avesse tutti gli “attributi” (limitatamente al poco spazio a disposizione). Tanto è vero che in un momento di difficoltà grave del Frantoio di Caprona (se non ricordo male nel 1976), perché a opere ultimate da tempo e stante il ritardo nell’erogazione del contributo FEOGA, il Comune nostro intervenne con un contributo di L. 3.000.000.

Nei giorni immediatamente precedenti l’appuntamento con il notaio per costituire la Cooperativa, con Emmo Biondi si chiacchierava a chi chiedere di far parte del Consiglio di Amministrazione e chi fosse il più adatto ad assumere il compito di Presidente. Lui andò a colpo sicuro indicando Valeriano Pratali: “Non è nemmeno fidanzato, ha tutto il tempo per starci dietro…” disse. Pesò nella scelta anche il fatto che fosse un piccolo proprietario, che appartenesse ad una condizione sociale diversa da quella dei mezzadri e dei compartecipanti.

Ricordo che andai a trovare Valeriano nell’oliveto in San Martino, sopra il Camposanto. Gli formulai brevemente la proposta e lui, con altrettanta sobrietà, acconsentì. E finora, ha svolto la sua funzione con due virtù che sono state fondamentali per il buon andamento del Frantoio: buon senso e dedizione totale. Cosa vuol dire dedizione totale? Essere sempre disponibile in caso di necessità: proverbiali i suoi interventi, a qualsiasi ora, sulle macchine che “si inceppano” e per il resto presente tutti i giorni, “sempre al pezzo”.

Riprendendo il filo del discorso: in un mio libretto si fissavano obbiettivi impegnativi affermando che la cooperativa di conduzione sarebbe stato un modo nuovo di gestire l’oliveto e con molto entusiasmo venivano riprodotti ipotetici conti economici di un oliveto di due ettari preso in affitto. Ma questa, purtroppo, non l’abbiamo azzeccata. Diciamolo meglio: il PCI e la sua parola d’ordine “la terra a chi la lavora” erano stati sconfitti nell’immediato dopoguerra. Con il passaggio delle deleghe dallo Stato alle Regioni, si tornò in quegli anni (1977/78) a riproporre una sacrosanta battaglia. Il Partito Comunista, un grande partito nazionale, tentò ancora di dare una risposta al movimento per l’occupazione delle terre incolte, ma ormai non c’erano più le condizioni economiche per avere successo. Anche noi patimmo una cocente sconfitta con la conduzione diretta degli oliveti, anche se aiutati dal Comune con un contributo di 5 milioni.

Un risultato positivo venne dal fatto che la denuncia, con tanto di nome e cognome, di chi lasciava abbandonato l’oliveto, indusse, in molti casi, il privato a riattivare l’incolto. Così dai 18 ettari che ci dovevano essere assegnati restammo con solo i due ettari presi in affitto.

Dopo l’avvio tumultuoso, dove il nuovo soggetto si presentava sicuro di se alla ribalta, non ponendosi limiti di sorta, ha provveduto la cruda realtà a circoscriverne l’ambito di intervento. Che dire ancora? Altri snodi si sono vissuti con gli adeguamenti in più fasi del macchinario e la ristrutturazione del fabbricato, sempre facendo attenzione ad usufruire di tutti gli aiuti che ci offriva la legislazione. I cambiamenti sono ben evidenziati dalle foto che trovate nel libro, anche se non è stato immortalato l’interno del frantoio appena ne prendemmo possesso: faceva pietà!

Oggi, la tariffa di frangitura è ridotta al minimo, è riconosciuto un prezzo elevato per l’olio conferito (anche se del tutto insufficiente confrontandolo con i costi), un immobile risanato sede di molteplici iniziative, i conti in ordine. Siamo una “bottega” modesta ma ben funzionante. Vorremmo fare altro, partecipare a battaglie, ma d’intorno vediamo soltanto soggetti chiusi nel loro misero guscio che cercano di tirare a campare. Manca un progetto, manca una politica per i Monti Pisani. Comunque, continuiamo a batterci “perché non vada tutto a rotoli”. Speriamo che il PIT (Piano Integrato Territoriale) riesca a definire un percorso su cui chiamare all’impegno tutti coloro che hanno a cuore la sorte dei Monti Pisani. Ci mettiamo a disposizione perché si tenga qui un ulteriore momento, dopo il Seminario realizzato l’anno passato, che partendo da quanto già detto in quell’occasione e dai risultati delle ricerche svolte nell’ambito del PIT, riesca a definire quella piattaforma che l’Assessore Sanavio indicò dovesse essere consegnata direttamente al Governatore della Toscana.

Un aspetto mi preme sottolineare: la Cooperativa ha voluto fortemente che nascesse la Strada dell’Olio dei Monti Pisani (la prima in Toscana) e siamo tuttora convinti del ruolo che l’Associazione può svolgere a difesa del settore. Nel contempo, non abbiamo fatto mistero delle critiche che abbiamo rivolto a questo organismo. E’ vero che la legge istitutiva assegna alla Strada ben delimitate funzioni, ma a nostro giudizio non si può prescindere da cos’è di fatto l’olivicoltura del comprensorio. La realtà non sono le aziende, gli IAP (imprenditori agricoli a titolo principale) che si contano sulle dita delle mani, ma la moltitudine di piccoli conduttori diretti, che rappresentano il baluardo traballante contro l’abbandono, di cui non è possibile dimenticarsi.

Passando a parlare de “Il Rinnovamento”, la cooperativa agricolo forestale che coesiste con il Frantoio e che attualmente da lavoro a quindici addetti, bisogna rifarsi al colpo mancato con la conduzione diretta degli oliveti. Nel 1977, scrivo un altro libretto: “Le combinazioni produttive: un’occasione per salvare l’olivicoltura dei Monti Pisani”. E mi esprimevo così: “…dobbiamo porci tre obiettivi di fondo: ottenere un aumento della produzione, dell’occupazione e perseguire la difesa del suolo… In una situazione di crisi come l’attuale, i primi due obbiettivi rivestono un’importanza particolare, e la difesa del suolo può essere impostata correttamente solo con una maggiore presenza dell’uomo sul territorio… Sui Monti Pisani è ancora possibile avere un’azienda economicamente valida?… Lo sarà soltanto per un’azienda diretto coltivatrice di idonee dimensioni e situata in zone dove sia possibile intervenire con mezzi meccanici, e in presenza di una serie di garanzie per il collocamento del prodotto valorizzandolo. E sarà possibile per una gestione dell’oliveto in forma cooperativa; una gestione che non dovrà limitarsi all’oliveto, ma che possa comprendere tra le sue attività interventi di bonifica montana, conduzione di terreni nel vicino padule del Bientina, nonché esperienze nell’allevamento del bestiame…L’intreccio di queste attività permetterà di utilizzare la mano d’opera lungo tutto l’arco dell’anno e la somma dei diversi redditi potrà rendere economico l’insieme… E’ un fatto che, oggi, gli interventi nel bosco, la coltivazione dell’oliveto, lo scarsissimo sfruttamento dei terreni del Padule, si dimostrano, ognuno preso a sé, non economicamente validi; per quanto riguarda l’oliveto e il Padule essenzialmente per l’impossibilità di impiegare in modo razionale il lavoro….”.

Così, il giorno 23 del mese di Novembre del 1977, in Pisa, nell’ufficio del “notaro” Umberto Mario Ciampi, un gruppo formato da contadini, disoccupati e studenti, chiedono “di far resultare nell’atto che costituiscono una società cooperativa agricola a responsabilità limitata denominata Il Rinnovamento”. La sede sociale ed amministrativa è in “casa del babbo”, il Frantoio Sociale. La quota per entrare a far parte della Cooperativa viene fissata in lire cinquemila e pertanto il capitale a disposizione raggiunge la “rilevantissima” cifra di 65.000 lire.

Così come per il Frantoio Sociale, anche nel caso de “Il Rinnovamento” ci fu l’aiuto del Comune con l’apprezzamento unanime dell’iniziativa da parte del Consiglio. Abbiamo già detto come si sviluppa la lotta per le terre incolte e dell’iniziativa del Frantoio Sociale che denunciò lo spreco e il danno che derivava dalla presenza dell’incolto a Buti con ciò anticipando di qualche anno quello che fu un movimento potente che percorse l’Italia intera. “Il Rinnovamento” nacque in quella temperie e beneficiò del contesto più favorevole rappresentato dai governi di solidarietà nazionale, che portò all’emanazione della legge n. 285 del 1 Giugno 1977 per l’occupazione giovanile; un clima che fu ulteriormente potenziato in una “regione rossa” come la Toscana. Di qui Commissioni provinciali per il censimento dei terreni, forte pressione sulle Prefetture perché venissero assunti i provvedimenti di assegnazione e bandiere rosse al vento. “Il Rinnovamento” fu uno degli strumenti più attivi in Provincia e ricevette fiducia con l’approvazione di un progetto assai impegnativo sotto il profilo finanziario (la legge prevedeva un contributo a fondo perduto pari al 70%). Con il progetto sulla legge 285, ci fu offerta la possibilità di concretizzare la nostra idea della combinazione produttiva bosco-oliveto-Padule. Un’idea fortemente condivisa all’interno della Cooperativa perché fondata, in larga prevalenza, sulla produzione rimettendo a coltura terreni (Padule del Bientina), recuperando oliveti lasciati incolti da anni, avviando altre attività produttive come l’allevamento delle pecore e delle api.

Il 27 Maggio del 1978 viene inoltrata da Otello Filippi la richiesta a “Sua Eccellenza” il Prefetto di Pisa per avere assegnati 31 ettari circa di terreni abbandonati o malcoltivati e tali risultavano dal Censimento voluto dalla Provincia. Dopo tanto tergiversare e dopo gli effetti salutari (ma che durarono molto poco) della paura che assalì i destinatari della richiesta, per cui misero mano direttamente al recupero, “Il Rinnovamento” riattivò un oliveto in località Quadonica di proprietà del Demanio regionale, e nel 1980 prese in affitto un altro oliveto nel Seracino e un altro ancora in San Giovanni. Complessivamente la Cooperativa arrivò a gestire oltre 5 ettari di oliveto (a ripensarci c’è da travagliarsi).

Seguirono anni impegnativi, e già nel 1986, distrutto l’allevamento delle api dalla Varroa e liberatici delle pecore, la combinazione produttiva bosco-oliveto-Padule era già andata a farsi benedire! Di lì in poi, Il Rinnovamento fu costretto a cercare lavoro dappertutto: potature, taglio di infestanti per i consorzi di bonifica, interventi di bonifica montana e manutenzione del verde in genere.

Ma la Cooperativa voleva lasciare il segno, tracciare una strada nuova. Passata la burrasca dei primi anni, messo qualche soldo da parte, si discusse vivacemente come impiegarli. La conclusione fu che avevamo il dovere di far vedere com’era possibile sfruttare le risorse del monte. Se non l’affrontava “Il Rinnovamento” una questione del genere, chi la poteva affrontare? Dopo alcune ipotesi, di cui rimane traccia nei verbali delle riunioni del Consiglio di Amministrazione, ci si concentrò su Serra ed ecco gli incontri con i proprietari, i fratelli Edilio e Renato Baschieri. Giustificammo la richiesta perché le superfici della Valle dei Lecci ci necessitavano per presentare un progetto per la conversione all’alto fusto dei castagneti. Una bugia che poco influì perché i fratelli Baschieri volevano, comunque, disfarsi di una proprietà che per loro era solo un peso. Edilio, per alzare il prezzo, sottolineò: “Non ci sono solo i boschi di castagni, c’è anche la polpa di Serra” facendo riferimento al fabbricato già dimora, nell’Ottocento, di due famiglie mezzadrili. “Ma quale polpa, per quattro mura cadenti?” replicammo e con un prezzo più che vantaggioso Serra (fabbricato e circa 35 ettari tra castagneti da legno e altri boschi) fu nostra. Definito il progetto dal Geom. Rinaldo Cavani, inoltrammo la richiesta di finanziamento sul Regolamento Comunitario n. 2328 e con un contributo pari al 50% per cento della spesa complessiva, il nostro piccolo gruzzolo e due pesanti mutui, la vita ritornò in Serra di Sotto. La fase più entusiasmante, almeno per me, furono i lavori di pulizia, quando molti dei soci dedicarono, gratuitamente, parecchi sabati ai lavori per disboscare Serra che, in stato di abbandono da alcune decine di anni, si era trasformata in una vera e propria giungla. Le donne portavano il ragù e con un fuoco improvvisato venivano serviti i maccheroni. Ho vissuto momenti davvero magici, ma credo che tali siano stati per tutti gli altri che hanno partecipato alla cosa.

Alla fine del 1998, la struttura era praticamente terminata e il capodanno lo passammo lassù. Sistemati gli ultimi arredi, il 25 Aprile del 1999 si ebbe l’inaugurazione di Serra di Sotto e l’avvio dell’attività agrituristica. Per dieci anni, abbiamo gestito direttamente la struttura. Anche qui, abbiamo misurato la grande differenza tra il dire e il fare constatando che le modalità in cui si svolgeva il lavoro non consentiva di raggiungere l’equilibrio economico dell’attività, in quanto il tempo lavoro dedicato al servizio e quello rivolto alla pura vigilanza della struttura era remunerato allo stesso modo provocando costi insostenibili. Così, da alcuni anni abbiamo ceduto l’agriturismo a terzi. Comunque la gestione diretta è un discorso solo interrotto e credo che possa essere ripreso su basi nuove.

Riassumendo la vicenda de “Il Rinnovamento” posso concludere così: gran parte del disegno iniziale è venuto meno; la combinazione produttiva oliveto – bosco – Padule ce la siamo dovuta scordare. E’ stato necessario un ripiegamento ruscolando il lavoro a destra e a manca. Però, avere garantito il lavoro per trentacinque anni applicando con scrupolo i contratti collettivi (e il trattamento pensionistico liquidato ai soci è lì a dimostrarlo), è indubbiamente un grande successo. Inoltre abbiamo provato che un’azienda nei Monti Pisani non può reggere se non viene concessa un’integrazione di reddito quale riconoscimento della funzione di presidio del territorio. La trasformazione della Cooperativa da iniziativa direttamente produttiva all’attuale, è stata resa possibile dalla decisione dell’INPS che ad un certo punto ha equiparato i servizi forestali e di manutenzione del verde all’attività agricola. In questo modo, sono venute a cessare le perplessità sulla natura della Cooperativa e di conseguenza è venuto meno l’imperativo di gestire direttamente terreni per conservare il carattere agricolo.

Balza agli occhi che “Il Rinnovamento” dovrebbe essere un protagonista in una politica attiva per la salvaguardia ambientale del monte e invece “va a giro per il mondo”. Ma a tutt’oggi la politica latita e la questione Monti Pisani, come si è visto, non è ancora arrivata sul tavolo di Enrico Rossi, governatore della Toscana. Non vanno avanti neppure cose minori, da cui potrebbero venire lavoro e difesa del territorio. Ad esempio, non si parla più dello studio, promesso in più occasioni, per verificare se è economicamente valido l’esbosco, almeno in alcune aree, ad iniziare dal cospicuo demanio regionale. Biomasse a cui sommare le sanse e i residui derivanti dalle potature sempre che si trovino in punti di raccolta accessibili. Purtroppo, insieme all’acqua sporca di una proposta assurda (la centrale a Cascine di oltre 10 Megawatt), si è buttato anche il bambino.

Dopo le esperienze maturate nel “Frantoio Sociale” e ne “Il Rinnovamento”, per la brutta piega degli eventi che preparavano un esito negativo sia per l’olivicoltura che per il soprastante manto boschivo, mi apparve chiaro che la questione ambientale andava posta al centro guardando oltre gli aspetti produttivi. Prendendo un’iniziativa in tal senso si potevano valorizzare energie che già agivano in paese. Basti pensare all’interesse dei giovani (vedi GVA, Circolo 88 e altri) che si rivolgeva alle problematiche relative allo stato di abbandono di oliveti e boschi e al conseguente rischio di incendio; alla deprecabile condizione in cui ormai erano (e continuano ad essere) ridotti i nostri rii e sorgenti; all’uso dissennato di tante superfici utilizzate come discariche a cielo aperto, e all’impossibilità, in molte zone, di percorrere il monte. A questo si aggiungeva una sensibilità nuova maturata nelle scuole, a livello di corpo insegnante, per cui si cercavano occasioni per portare gli alunni a diretto contatto con la natura. Ecco perché doveva nascere un altro soggetto che completasse l’azione svolta dai primi due.

Nel sito su internet l’abbiamo presentato così:

Nel corso dei secoli un lavoro immane e mal retribuito ha trasformato, con i terrazzamenti, buona parte dei Monti Pisani in un giardino accogliente e produttivo. Poi, il disfacimento del contratto di mezzadria ha determinato l’abbandono pressoché completo delle campagne, il degrado progressivo dell’olivicoltura e del bosco.

Prima la natura si mostrava amica per la costante manutenzione e vigilanza spontanea dei contadini e dei boscaioli, mentre oggi cresce, nelle poche figure che si sono insediate, un senso di insicurezza, per cui si procede a difendersi con allarmi e recinzioni, spesso abusive, con ciò ostruendo passaggi il cui uso era consolidato da tempo immemore.

Allora natura amica per un fitto reticolo di sentieri che lo attraversavano, per la presenza di acque di particolare pregio, per i frutti del sottobosco, per i rifugi naturali che durante l’ultima guerra hanno ospitato decine di migliaia di “cittadini”, e oggi? La natura forse non è più amica?

L’ambiente, di per se non ostile, se viene ignorato o maltrattato può, si, divenire luogo dove si scatenano incendi, dove progredisce l’abbandono e l’inaccessibilità.

Lo scopo fondamentale dell’Associazione è quello di riflettere insieme sulle profonde trasformazioni che ha subito nel tempo questo territorio favorendo il dibattito tra i soggetti (istituzioni, associazioni, individui, imprese) potenzialmente interessati alla sua tutela e per uno sviluppo economico sostenibile che garantisca, di nuovo, presidio umano e fruibilità del monte. Di qui il collegamento stretto con due cooperative che da tanti anni agiscono sul territorio: una, l’Oleificio Sociale di Buti, che raggruppa la miriade di piccoli produttori olivicoli, che cercano di arrestare, con passione ostinata, il degrado e l’abbandono della coltura; l’altra, Il Rinnovamento, organizza il lavoro di un gruppo di operai agricolo forestali protagonisti anch’essi della difesa del territorio con interventi di bonifica montana ed effettuando le operazioni colturali specializzate (potatura) nelle micro aziende dei cosiddetti olivicoltori della domenica. Più in particolare, l’Associazione “Amici del Serra” completa l’azione delle due cooperative affrontando le problematiche dell’educazione ambientale e cercando di mettere in relazione studenti o semplici cittadini con l’ambiente dei Monti Pisani….”.

Finisce qui il breve resoconto delle vicende dei tre soggetti promotori di questa festa: quarant’anni di vita il Frantoio, 35 Il Rinnovamento, 15 gli Amici del Serra. Tre vicende minime, ma sufficienti perché attraversandole si diventasse vecchi. Comunque un percorso in cui abbiamo creduto fortemente. Dicevamo in più passaggi che la Storia, con la esse maiuscola, ci ha sconfitto, però è una bella storia quella, piccola, di uomini e donne che testardamente hanno cercato di aprire una strada nuova.

Graziano Bernardini

la presentazione del libro

(qui sotto il libro consultabile in formato pdf)

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foto di Maurizio Pieroni